IL FOGLIO – Di padre in figlio

Il Foglio, 15/3/2012

Il segreto dell’educazione? Semplice, “non avere il problema di educare”. I giovani d’oggi? Sono fragili, sperduti, spesso in balia di se stessi, delle proprie paure, dell’aria che tira nel mondo. Ma il problema non sono i ragazzi, che “vengono al mondo come siamo venuti al mondo noi, e i nostri nonni, i nostri bisnonni, cento anni fa, mille anni fa.


Sono come devono essere, nascono come Dio comanda, cioè con un cuore fatto per la felicità”; il problema sono gli adulti. Il problema è un mondo, una cultura che ha sistematicamente distrutto l’idea di padre. L’idea di un Padre, innanzitutto, e perciò l’idea di una paternità – e di una maternità – fondata sulla certezza di un destino buono da comunicare. Per cui quando un ragazzo, spinto dalle esigenze naturali del suo cuore, della sua ragione, a quindici, sedici anni domanda, espressamente o implicitamente, una ragione per cui valga la pena vivere, trova troppo spesso risposte formali (la “legalità”), evasive (“devi trovare la tua strada”), ciniche (“quando sarai grande capirai che nella vita quel che conta è il successo”), autoritarie (“in questa casa è così, e basta”). Invece tutto quel che un ragazzo cerca è un adulto impegnato seriamente con la propria vita, un adulto capace di testimoniare – nei fatti, nel modo di trattare il tempo, il lavoro, la casa i soldi, i discorsi qui servono pochissimo – che la vita ha uno scopo buono, che è un’avventura piena di senso, che le regole affondano la radice nell’esperienza di bene che aiutano a fare. “Lo dico da cristiano, ma la sfida è uguale per tutti. Se doveste alzarvi e dirmi: ‘Ma io non credo’, direi che non importa, vale la stessa cosa perché, giratela nella forma più laica che conoscete, la sfida è identica, è tuo figlio che ti guarda e ti dice: ‘Dimmi comunque qual è l’ipotesi di bene su cui basi la tua vita’. Tu devi poter rispondere, non a parole ma per un’esperienza vissuta, per la testimonianza di un’esperienza vissuta”.

Tutte queste e molte altre considerazioni, svolte in queste “Conversazioni sul rischio di educare”, nascono, come osserva il cardinal Ruini nella prefazione, “non a partire da uno studio libresco, ma da mille esempi della realtà di ogni giorno”. Per Franco Nembrini, infatti, l’educazione è la vocazione della vita. Quarto di dieci fratelli, cresciuto in una famiglia “di una volta”, pochi soldi, poche parole e tanta fede testimoniata, a undici anni, mentre trasporta pesanti casse d’acqua per le scale della drogheria dove lavora – aiutare il bilancio di casa è d’obbligo – viene folgorato dal ricordo di un verso di Dante, “Tu proverai […] come è duro calle/lo scender e ‘l salir per l’altrui scale”, e giura nelle mani della sua professoressa di lettere di diventare insegnante di italiano. Ma a sedici anni la tradizione familiare non basta più, abbandona la scuola, i sacramenti, è in rotta con tutti e con tutto; è qui che incontra don Giussani e l’esperienza allora agli inizi di Comunione e Liberazione e ne rimane affascinato: “per la prima volta le domande che avevo addosso venivano prese sul serio”. Riprende gli studi, si laurea, insegna prima religione e poi italiano, fonda insieme a un gruppo di genitori una scuola paritaria, gli vengono affidati incarichi di responsabilità nel mondo della scuola di CL. In tutto questo tempo, dedicato sempre a “tirar grandi”, come dice lui, i figli – i propri e migliaia di altrui –, le occasioni di parlare di educazione sono state infinite, e molti dei suoi interventi registrati e trascritti e hanno cominciato a passare di mano in mano. Il volume che ora arriva in libreria ne raccoglie alcuni, offerti a chiunque fosse interessato a farsi accompagnare nel difficile ed esaltante compito di educare.

 

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