La cascina – Un racconto di Francesco Fadigati
La strada compiva una rapida curva dopo la macchia di bosco che aveva appena attraversato: ecco, là in fondo si apriva la vallata che lui conosceva così bene.
S’era in principio d’autunno: le foglie della quercia iniziavano a virare dal verde intenso al ruggine e da questo ad un rosso vivo, vivo almeno quanto il luccichio del sole sulle foglie delle viti; distingueva sui tigli le foglie che avevano iniziato a rivestirsi di un giallo brillante: ne vedeva staccarsi alcune e cadere placide, librandosi nel vento.
Ecco le distese di campi umidi della pioggia del giorno prima ed ecco, laggiù in fondo, protetta alle spalle dai boschi di castagni, circondata da reggimenti di vigneti, svettante nelle sue mura solide, la Cascina.
Non poté evitare che un nodo gli chiudesse la gola e un fiotto di pace gli invadesse l’animo. É così che la vita lascia la sua traccia in noi?
Rivide il piccolo campanile, al centro del complesso (due volte lo avevano dovuto riedificare, la seconda per un fulmine caduto in una notte di burrasca) le belle tegole di cotto (e quante volte era andato lui stesso a pulirle dalla sporcizia che si era accumulata) e poi gli essiccatoi, di cui uno pareva allestito di fresco, in bel legno giovane.
Sentì il profumo che riconosceva, di erba umida e terra grassa: sì, c’era bella terra lì, terra da far germinare spighe piene e luminose ai primi caldi, ma quanta speranza è chiesta al contadino che ogni giorno la deve dissodare?
Lui lo sapeva bene, che ci si era spaccato la schiena varie volte fra quelle zolle, ignorando gli sguardi beffardi di chi si fermava lungo la carrabile, scuotendo la testa: “Che mai vorrai tirarci fuori da questa pietraia, zuccone d’un villano?” Dicevano tra sé e sé e poi proseguivano verso il bosco, soddisfatti d’aver sigillato l’arido di quella terra con le loro sentenze.
Ma lui pareva non sentirli, e a chi gli chiedeva: “Ma che ci torni a fare fra quel pietrame?” lui sorrideva, si dava una grattata di testa e rispondeva: “Mica me lo sono inventato io che c’è della buona terra, lì fra ai sassi!”
“Sì, ma è fra i sassi” replicavano quelli.
E lui, ancora: “Fra i sassi, ma c’è. E non me lo sono inventato io!” Testardo che era. Testardo, o caparbio. Di quella caparbietà che viene quando s’ubbidisce a un gran disegno.
Mica il suo, no, no, che forse se ne stava bene a coltivare l’orto come mezzadro su alla Tenuta, dove carote e lattughe non mancavano. Quella era demanio pubblico, e lui era così giovane allora, nemmeno sposato (ma col matrimonio in vista e tutte le spese da affrontare, per la festa e per la casa) così di certo non poteva fargli che comodo il salario fisso della Tenuta.
E allora? Perché s’era arrischiato a fare i primi sopralluoghi, poi a sondare la terra, a cercare i proprietari perché ne cedessero qualche pertica all’uso, a ristrutturare il primo podere -un tugurio che c’era da aver paura ad entrarci-? Perché s’era messo a trasportare lì gli arnesi e a iniziare a dissodare, usando il carro prestato da un amico del paese, e poi a cercare altri, i primi operai che venissero lì a dargli una mano?
Si diceva in paese -la gente infatti si radunava sempre a far due chiacchiere, quando usciva di chiesa- che non agisse di testa sua. Che anzi, avesse iniziato per una richiesta. Glielo avevano chiesto, ecco: e lui aveva accettato, insieme ai primi due o tre coraggiosi che gli avevano dato una mano.
Ma chi? “Chi ve l’ha chiesto?” Gli chiedevano alla sera gli amici in osteria. E lui li guardava: “Avete ragione” diceva. “Questo è il nocciolo della vicenda: Chi ce l’ha chiesto. La cosa veramente importante é Chi ce l’ha chiesto. Se no, non avremmo nemmeno iniziato” e se ne stava in silenzio, fra gli sguardi ammutoliti degli altri. Che no, non lo deridevano: questi erano suoi amici. Bevevano in silenzio e in silenzio approvavano. In fondo approvavano. Senza dirselo, ma si capiva che ci vedevano in mezzo qualcosa di buono. Di molto buono.
Tanto che poi qualcuno si decise: “Ci vengo anch’io, giù, alla pietraia”. La chiamavano ancora così.
“Perché? Che ci vieni a fare?” Lo sfidava lui. E quello alzava le spalle: “Tu sei contento. E forse hai ragione, c’è buona terra, lì. Terra che é un peccato che non butti fuori niente, tanto è bella”.
Lui non rispondeva, ma gli cantava il cuore. Così, avevano appena iniziato, erano già in dieci o dodici, sotto il sole, nel fango di quando pioveva, nell’arido di quando soffiava il vento, che sembrava tagliare la collina, da tant’era freddo.
Ma il sole poi ritornava.
E già si vedevano comparire le prime spighe. Ed erano spighe belle, quant’è vero Iddio, spighe belle sane, belle in piedi: il vento non le spezzava, anzi, sembravano danzare con esso alla sera, quando suonava vespro e loro (adesso erano già una trentina) si fermavano dal lavorare, il cappello in mano e si segnavano sulla fronte, così in modo naturale, senza dirsi niente. Senza dirsi niente, perché era chiaro a tutti loro che tutto quel che stavano facendo, fin da quando avevano iniziato a piegar la schiena all’alba, era fatto davanti a Chi lo aveva chiesto loro. Perché la vera questione é Chi lo aveva chiesto loro.
Per questo fischiettavano. Per questo non era raro sentirli cantare, mentre si graffiavano le dita nel togliere le erbacce. Per questo non era raro persino vederli scherzare, nella pausa pranzo, quando ridevano di gusto nel raccontarsi l’un l’altro le piccole disavventure e gli incidenti della mattina. Poi ricominciavano a faticare, col proposito di lavorare meglio, di non far più scappar la roncola di mano, e di dissodare con più cura.
Frattanto in paese la voce s’era sparsa e alcuni curiosi si affacciavano, di tanto in tanto, oltre il bosco di faggi, oltre la curva che spalancava davanti agli occhi la vallata.
Allora si fermavano, con le mani a proteggere lo sguardo dal sole e vedevano – meraviglia! – i primi appezzamenti coltivati venire su fra le pietre, e il vecchio poderello diventato un caseggiato, e un bel filare di tigli a proteggere con la sua ombra i massari, e un aratro tirato da un bue governato da un ragazzino. Rimanevano lì non so quanto, poi scuotevano la testa e se ne tornavano al paese senza riuscire a capire. “Smetteranno” dicevano all’osteria. “Ci son troppe pietre sotto la collina: è terra di fiume!”
Ma intanto la voce correva e qualcuno persino s’era spinto dai paesi vicini a vedere com’era possibile, come fosse successo che da una distesa di zolle sassose fossero venute su spighe capaci di riflettere l’oro del sole. Così – perché era andata così – qualcuno dei borghi limitrofi aveva chiesto a lui di venire giù da loro a spiegare, a spiegare come avevano fatto a far nascere fra la ghiaia tutto quel ben di Dio. “Qual è il vostro segreto?” gli volevano chiedere: “Diccelo, così impariamo anche noi”.
Lui era andato, dapprima un po’ intimidito, poi più risoluto – tanto mica è merito mio! – e s’era trovato al caldo di una stalla, fra la gente delle campagne, gente buona, che lo ascoltava seduta sugli sgabelli per la mungitura, o sul fieno. Chi lo aveva invitato lo apostrofava: “Come fate? Voi dovete dircelo, perché la terra è buona anche qui, ma sembra che non venga su niente.”
E lui li guardava, sorrideva. Si faceva silenzio e lui sorseggiava il vino che gli avevano offerto per l’incomodo di andarli a trovare.
Alzava la testa di colpo: “La terra la fate voi o la trovate già?”
Quelli si grattavano la testa: “C’è già.”
“E il sole. Il sole che al mattino viene a visitarci, disgraziati che siamo, e ci scalda le ossa. Lo dovete far voi, o lo trovate già?”
“C’è già.”
“E la pioggia, che disseta le spighe. Quella la dovete far voi, o la trovate già?”
“No, no, quella c’è. Anche troppa.”
“E i semi… Li fate voi, o ve li danno le spighe stesse?”
“Li riceviamo dalle spighe.”
Allora sorrideva di nuovo, di un sorriso che aveva dentro la terra, il sole, la pioggia: “E allora, buona gente, di che vi state a preoccupare? Badate a far lavorare queste cose, custodite l’incontro fra le spighe, l’acqua, la terra e il sole, ubbidite alle loro leggi, e vedrete germogliare persino i rami morti.”
Così aveva iniziato a viaggiare, pensa te, per raccontare quelle cose, quelle poche cose che egli stesso imparava dalla terra, e dal sole, e dagli amici operai che erano venuti a lavorare con lui: andava nelle cascine, prima col mulo che avevano acquistato insieme, poi con un carro, perché se ne tornava pieno di doni, per la gratitudine della gente che lo invitava. A volte portava con sé qualcuno della Cascina.
Poi tornava, e la sera ci si riuniva nel fienile grande e lui raccontava le meraviglie che vedeva, uscendo dalle terre della Collina per visitare fattorie lontane, dove persino la gente parlava lingue diverse, ma nutriva anch’essa il santo desiderio di veder germogliare la terra.
E gli operai – ora erano diventati molti, e ce n’erano anche di molto giovani – tacevano e fantasticavano e sentivano dischiudersi i cancelli della Cascina e allargarsi il mondo intorno a loro; e sentivano di altre saggezze nel curare le spighe, di sapienze diverse per crescere i vigneti. Ed imparavano, e speravano. E il mattino dopo li sentivi cantare con più leggerezza, con più leggiadria: perché il sole benediceva le terre anche di paesi lontani. E non era solo per loro tutto quel ben di Dio.
Ma anche quando il suo nome divenne noto e le labbra di molti lo pronunciavano con gratitudine fuori dalla regione, lui non smise di lavorare coi suoi: tornava alla Cascina, indossava i panni con cui era solito scendere nei campi, si mescolava fra gli altri operai. Assisteva con gioia al nascere dei vitellini, guardava con preoccupazione alla mosca che colpiva la vite. Spesso si fermava a parlare coi mezzadri: “Cosa ne facciamo delle pietre che soffocano le spighe? Le buttiamo via?”. E lui si chinava, ne raccoglieva cinque o sei. Sotto i loro occhi le andava a disporre alla base del fusto delle viti. “Guarda: ora sono una barriera contro il vento. Di quelle grosse facciamone muri di cinta. Pure i sassi potranno servirci. Li abbiamo trovati. Non buttateli nel fiume.”
Ora era passato molto tempo. E centinaia di operai lavoravano alla Cascina. E le sue spighe stupivano e addolcivano gli occhi di molti passanti. E lui aveva capito che Chi gli aveva chiesto di iniziare ora gli chiedeva altro. Altro di grande, altro di imprevedibile. Altro di molto buono. Le terre di altre cascine, di altre tenute chiedevano di imparare ciò che lui aveva imparato, di attingere ciò a cui lui aveva attinto e continuava ad attingere. Ecco perché aveva deciso di andare, di partire dalla Cascina. Di lasciare che crescesse, ora che era diventata una tenuta bella e grande e tanti operai esperti vi lavoravano con saggezza. Ed oggi tornava, per riprendere le sue ultime cose, senza disturbare. Non voleva interrompere il lavoro.
Quando giunse al primo filare di tigli vide corrergli incontro il fattore, che lui stesso aveva assunto, tanti anni prima.
“Eccoti! Sei ritornato!” gridò il fattore.
“È solo per portar via le ultime cose! Sai…”
L’altro non rispose, lo interruppe abbracciandolo e stringendolo a sé.
I due uomini si guardarono in volto e sorrisero, leggendo nelle rughe dell’altro la medesima pace. “È una meraviglia, qui.” Disse lui.
“Ringraziando Dio” rispose il fattore. E poi: “Vieni!” gli disse.
E lo portò a visitare le terre che per così tanto tempo aveva calcato. “Ecco, guarda: questo è il campo di legumi. Ci dà tanto bel prodotto, dopo che il grano ha consumato la terra. Se ne occupa Berto, che viene da una lontana provincia.”
Berto, un giovane abbronzato dai capelli biondi lo guardò, capì, sollevò il cappello di paglia e lo agitò per salutare.
“È bravo, sai. Sembra nato per far quello. Cura ogni pianta come fosse l’unica.” diceva il fattore.
E lui taceva e godeva nel cuore.
“E qui” continuava il fattore: “Ecco la vigna. Ci dà una vendemmia che chiede l’aiuto di tutti i giovani del paese. Anche quelli che il curato caccia dall’oratorio, perché si mettono a far baccano dopo compieta. Che rompono i vetri dell’osteria con i sassi. Vengono qui e lavorano con noi. E cantano con noi, alla sera.”
E lui taceva e godeva nel cuore.
Il fattore lo condusse ai nuovi edifici: “Ecco, vedi: abbiamo completato il nuovo granaio e posato la prima pietra di tre nuove case. Altre famiglie di contadini si stabiliranno qui.”
E lui taceva e godeva nel cuore.
Nel cortile giocavano i bimbi, i figli dei contadini e degli operai. Una giovane li richiamava a sé, li faceva sedere in tondo e iniziava a leggere loro una fiaba. I bimbi sgranavano gli occhi e sognavano di cavalieri e di grandi avventure.
E lui taceva e godeva nel cuore.
Il fattore lo condusse nelle cantine, attraverso una scala ripida. Erano ampi locali, foderati di belle pietre, forti e asciutte. “Lo vedi: sono le pietre dei nostri campi. Davvero non ci son state date solo per spaccarci la schiena.”
E lui sorrise e godette nel cuore.
Allora lo fece sedere. E si guardò intorno, nella penombra della grande stanza. E solo allora si accorse che era atteso. Che anzi: tutti lo aspettavano. E c’erano tutti: i primi amici, i primi massari, i vecchi proprietari, gli operai della seconda generazione e quelli della terza e persino i figli della prima generazione. C’erano, sì, anche quelli che una volta lo deridevano, passando per la carraia, e quelli che in paese a volte avevano parlato male di lui. E sua moglie e i suoi figli. E i figli dei suoi figli. E sorridevano e stavano con lui, godendo nel cuore di tutto quel bene, sorto fra le pietre.
E lui si sedette. E tutti tacquero, perché non c’era poi molto da dirsi. C’è poco da dirsi quando si è ugualmente grati, quando il cuore vibra della medesima – immeritata – gratitudine.
Allora, nel silenzio che s’era creato, lui prese dalla borsa il vecchio cavatappi, che portava sempre con sé (perché ogni giorno c’è un motivo per cui festeggiare) e raccolse la bottiglia polverosa che il fattore gli porgeva.
La guardò nella luce delle lampade. Era un vino denso, scuro, pieno di succo.
Lo aprì e il suo profumo pervase l’intera cantina e fece sbocciare dalla loro gratitudine un singulto di gioia.
E poi lo versò, per sé e per gli amici, i vecchi amici e i nuovi amici e quelli persino che non conosceva, che erano diventati amici dei suoi vecchi amici.
Ed era un vino buono, che faceva godere il cuore di gratitudine. Perché nessuno di loro aveva fatto la terra, né il sole, né la pioggia, né il seme, né il fusto, né le foglie, né i grappoli, ma ciascuno di loro si era inchinato davanti a ciascuna di queste cose, e l’aveva aiutata ad essere, a crescere per ciò che veramente era: una cosa buona, che faceva bene al cuore.
“Ecco” disse allora il fattore: “Se tu non avessi risposto a Chi tanto tempo fa ti ha chiamato, oggi nessuno di noi sarebbe qui, avendo risposto alla tua stessa chiamata, e non ci sarebbe quest’ottimo vino. E non ci sarebbe la vigna che lo produce. Tu ci hai insegnato a coltivarla e ad amarla, e a patire con essa, e a crescere con essa. Ed oggi noi facciamo lo stesso con chi è arrivato all’ultima ora. Così questa saggezza che viene dalla terra e dal sole sta passando di padre in figlio. Anzi…” E la voce del fattore tremò: “Di padre in padre. Perché questo tu hai fatto di noi.”
E lui non disse nulla, solo chinò la testa, e si massaggiò la barba, guardandosi le ginocchia.
Qualcuno disse che era il suo modo di pregare, perché lo faceva spesso, anche in mezzo a molti. Qualcuno disse che era il suo modo di commuoversi.
Io che un po’ lo conosco dico che era il suo modo per fare entrambe le cose.
Perché lo faceva spesso, anche in mezzo a molti.
E così ha insegnato a farlo anche a noi.
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