“Sulle spalle dei giganti” – Nono incontro

“Sulle spalle dei giganti” – Nono incontro
La rivoluzione del ‘68: un appuntamento mancato? Pier Paolo Pasolini

2 marzo 2018

Franco: Stasera è una serata particolarmente difficile. Lo erano anche le altre, ma questa è stata davvero difficile da preparare perché parlare di Pasolini, del ’68, è parlare di un periodo in cui io c’ero, e molti tra voi c’erano e quindi probabilmente tutte le cose che dirò stasera, più delle altre volte, sono opinabili, discutibili perché ognuno avrà il proprio vissuto e una propria storia. Io mi avventuro in una specie di racconto di quegli anni che ritrovi in Pasolini una sintesi della cultura di quegli anni per cercare di capire cosa è accaduto. Dall’altra parte vorrei riprendere la traccia da cui siamo partiti l’anno scorso, seguendo la chiave di lettura de “La coscienza religiosa dell’uomo moderno”. Cioè un tentativo di don Giussani di leggere e di capire la storia spirituale dell’Europa a partire dal Medioevo.

Nel riferire questo percorso userò dei testi di Pasolini raccontando anche quel che ho visto io. Ci sono degli episodi di quegli anni che hanno determinato molto di me e del sentimento che poi ho maturato nel tempo rispetto alla politica, rispetto alla società.

Far questo lavoro è difficilissimo, sintetizzare un momento come quello è davvero un’impresa.

Cercando di essere ordinato riparto da dove siamo partiti quest’anno. Non so chi c’era di voi quando ho presentato Leopardi. Ripartiamo da lì perché quel che ho tentato di dire di Leopardi mi sembra che sia la cifra di tutto quello che diremo stasera e che ci aiuta a mettere a fuoco l’idea fondamentale di stasera senza poi perderci in tanti spunti che dovrò comunque cercare di dare. Dico questo partendo dalla poesia di Leopardi “Alla sua donna” che ha sempre colpito me, aiutato a capirla da don Giussani, perché rappresenta il vertice del sentimento profondo della vita che Leopardi ha e della domanda più radicale che tutta la sua vita e tutta la sua opera propongono alla sua epoca e alla nostra e a me sembra veramente un’ipotesi, una chiave di lettura interessantissima. Questa poesia dice che l’uomo è fatto per una cosa grande, di un desiderio nel cuore dell’uomo che in questa poesia arriva perfino ad essere definito come contenuto in termini assolutamente chiari. “Bisognerebbe che ci fosse in cristianesimo” dice Leopardi. “Sarebbe veramente bello e forse sarebbe il termine vero della felicità che l’uomo cerca se Dio, invece che starsene sulla luna o da qualche altra parte, inconosciuto e inconoscibile, sarebbe veramente bello che Dio accettasse di sporcarsi le mani con la nostra vita, accettasse di farsi carne insieme a noi per esserci davvero compagno. Ma questo non è possibile”. Impressionante perché 1800 anni dopo l’avventura di Cristo su questa terra un uomo geniale esprime il desiderio che ciò che è già accaduto avvenga, e lo ritiene impossibile. In fondo tutta la modernità e i grandi della modernità, benché poi esteriormente nemici della Chiesa, come fu Leopardi del resto, dal punto di vista del pensiero e della filosofia. In realtà esprimono tutti questo dramma che fa soffrire, leggendo certe pagine, perché ci si chiede “come fa? perché un italiano, in una società e in una terra imbevuta di cristianesimo invoca Cristo venturo e non lo riconosce presente, presente nella storia che ci ha portato fin qui?” “Quale terribile dimenticanza, quale terribile negazione, cosa è accaduto?” era la domanda da cui siamo partiti l’anno scorso. Cosa è accaduto perché l’uomo vivo, che sente drammaticamente la vita, in Italia, dove anche i sassi parlano di Cristo, cosa è accaduto perché gli uomini più grandi hanno sentito questa nostalgia di Cristo senza riconoscerlo presente? Cosa è stata per loro la Chiesa? Cosa siamo oggi di fronte al grido dell’uomo noi cristiani? Questo è il tema di stasera e a me, cristiano, leva la pelle. Mi fa star male perché è il grido di Pasolini come è il grido, settant’anni dopo del Peppino della lettera della volta scorsa.

 

 

 

XVIII – ALLA SUA DONNA

 

Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Bellezza infinita che mi scuoti nel sonno, che mi sorprendo a desiderare con tutto me stesso,

dove sei? Forse sei stata nel passato, forse sei presente ma  non ti vediamo, o forse devi ancora

venire. Dove sei?

Viva mirarti omai
Nulla speme m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello

Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo


Io mi pensai.

 

Da bambino, da ragazzo ho davvero sperato che tu mi fossi compagna, bellezza finita, cioè Dio.

“Viatrice” è compagna di strada, ma che a me ha sempre fatto venire la pelle d’oca

per la sua assonanza con la Beatrice invocata ma non più presente.

 

Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,

Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:

 

Ecco, la felicità sarebbe questo: che sulla terra, chissene frega del Paradiso!

Qui su questa terra, giorno per giorno nella fatica della giornata ti potessi amare, abbracciare,

sentire compagna.

E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe.

 

E se tu fossi qui, per il tuo amore io ritroverei l’entusiasmo e le passioni della giovinezza.

 

Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

 

“Ma non è vero, non ci sei, non è accaduto”. Però di nuovo ripete:

E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

 

Eppure la vita con te sarebbe uguale a quella che nel cielo vivono i beati. Simile a quella che nel cielo

rende simili a Dio. “india”.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;

 

Se tu sei Dio ma te ne stai per conto tuo, non ti va di servire questa carne e provare il dolore

della vita come lo proviamo noi, oppure:

O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;

Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

   

“Io l’unica cosa che posso fare, da uomo, leale con me stesso e leale con la condizione che vivo è, Dio sconosciuto, adorarti, mettermi in ginocchio davanti a questa grandezza che vedo ma che non accetta di farsi compagna della vita”. Quando don Giussani commenta questa poesia e chiude il libro “Cara beltà” di commento a Leopardi, si fa questa domanda: “come ha potuto arrivare fin qui, chiedere l’incarnazione, invocare l’incarnazione e non riconoscerla? Per brutta che fosse la Chiesa e brutto che fosse il popolo cristiano erano ben duemila anni di questo annuncio che lo ha raggiunto”. E tira questa conclusione che mi ha sempre colpito molto, perché io avrei detto: “con una madre come quella di Leopardi, che viveva il cristianesimo a quel modo (Ritratto di una madre), non poteva essere cristiano. O con il padre tradizionalista legato al potere della Chiesa, proprio non poteva”. Giussani dice invece semplicemente: “Gli mancò amicizia sufficiente”. Quel che serve è avere amicizia sufficiente perché questa domanda possa essere dialogata con degli amici, sentita fattore comune della propria umanità e perciò, con degli amici, avventurarsi alla ricerca, almeno alla ricerca leale, sincera, piena di ammirazione e di meraviglia, di dove questo Dio che dicono si sia fatto carne, si sia cacciato. Andarlo a stanare per le strade del mondo, in quel che accade, in quel che succede. Nella presunzione che la Chiesa ha di se stessa, conciata com’è, ma che continua a dire “Io sono il corpo di Cristo, quello che cerchi è qui”. Quel che le nostre comunità e le nostre parrocchie dovrebbero fare è questo: generare amicizia sufficiente per andare a vedere insieme dove Cristo abita e dove ci viene incontro e ci chiama.

Bene, quel che vorrei provare a dire stasera, leggendo alcune cose, è provare a mettere a tema la domanda iniziale: cos’è accaduto ad alcuni grandi, e prendo Pasolini come punto chiaro di questa terribile contraddizione che è la stessa di Leopardi, che invocavano Cristo presente e sentivano uno struggente amore per il popolo? Perché io solo tre persone ho sentito al mondo parlare del popolo così: don Giussani, il prete più anti-borghese, anti-clericale che io abbia mai visto che aveva un amore vero alla gente, al popolo. Mi raccontava che da bambino si commuoveva sentendo gli operai o i contadini che tornavano dalla terra, nelle sue zone, Desio, la Brianza campagnola, lo riscuotevano dal sonno sentendo gli uomini al sabato sera tornare a casa ubriachi fradici cantando canzonacce con il fiasco del vino in mano. Lui si commuoveva perché quello era il popolo cristiano. Questo stesso sentimento l’ho ritrovato nelle pagine di Pasolini che leggeremo adesso. E forse la stessa cosa la notai quando conobbi Aldo Brandirali, di Servire il Popolo, una delle fazioni para militari vicini alle Brigate Rosse negli anni di piombo che aveva chiamato il suo movimento “servire il popolo” per uno struggente amore al popolo. Poi si è convertito incontrando don Giussani e siamo diventati amici, l’ho conosciuto bene e aveva veramente quella sensibilità, quell’amore per il popolo, per la gente gente. Poche volte, al di là di tanti manifesti, ho sentito parlare del popolo con un amore così, oltre che nel Vangelo, naturalmente.

Quel sogno di Leopardi di avere Dio come compagno della vita è in fondo il sogno anche di Pasolini. Nasce nel 1922 e muore nel 1975, viene trovato ammazzato come sapete, alla periferia di Roma, frequentava omosessuali quindi era lo scandalo vivente di tutto ciò che la Chiesa aborriva. Era della stessa classe di don Giussani, e non si sono incontrati per un pelo, quando è stato ammazzato avevano già fissato un incontro, come racconta Savorana nella biografia di don Giussani. Chissà cosa sarebbe stato quell’incontro. Pasolini scrive un racconto “Il sogno di una cosa” il cui inizio è tratto dal Capitale di Carlo Marx, che aveva visto da poco. Ora non ricordo esattamente dove sta la citazione, ma dice che stava per emergere il sogno di una grande cosa che l’umanità ha sempre avuto e finalmente comincia a prendere corpo, si comincia a vedere. Il sogno di una verità, di una bellezza della vita che poi evidentemente ha preso una strada che è esattamente il contrario per le ragioni che abbiamo visto in tutte queste serate e che ridirò stasera. Il sogno di una vita vera, questa nostalgia, che io chiamo così esplicitando il sugo della storia, la nostalgia di Cristo, la nostalgia del fatto che Cristo ci possa essere compagno che è stata rigettata dalla modernità in nome di un razionalismo che abbiamo visto però fallire. Ha generato una sorta di ubriacatura, di ottimismo sulla possibilità che l’uomo si sostituisse a Dio ritenuto inutile se non dannoso, se non nemico. Ma questo ottimismo è stato pesantemente frustrato da un secolo che fra due guerre mondiali e tutto quel che è successo ha mostrato la corda. L’ottimismo moderno ha mostrato la corda. Alcuni se n’erano accorti, abbiamo visto nel Verismo e in Pirandello e han detto “non funzionerà mai, o comunque c’è qualcosa in questa nostra presunzione non funziona”. Allora io riprendo in momento il testo di don Giussani e leggo i quattro branetti che ho scelto su Pasolini e man mano li leggo vi dico un po’ la mia.

 

Giussani a un certo punto dice che lo smarrimento culturale dell’uomo moderno, cioè l’esito di questo percorso, di questa presunzione poi frustrata dalla storia, dai fatti, è uno smarrimento culturale. L’uomo moderno sembra essere caratterizzato da alcune ferite, da alcune cicatrici che lui definisce così: “una angoscia di fronte all’assenza, alla enigmaticità dell’essere, della vita, delle cose, la realtà che pure c’è sembra non avere alcun significato. O questo significato, se c’è, sembra irreperibile. Perché le cose, perché la vita, perché il dolore, le grandi domande dell’uomo di fronte alla realtà sembrano non trovare più una risposta”. Cita, bellissimo, il romanzo “Barabba” premio Nobel per la letteratura, la storia dell’uomo che ha avuto la vita salva perché Cristo ha perso la vita al suo posto, ma di Cristo non sa nulla. Barabba non si converte ma il premio Nobel, nella motivazione del premio Nobel a questo romanzo è scritto così: “È considerato emblema dell’uomo europeo, il quale riconosce il cristianesimo come fonte dei valori che hanno imposto al mondo la sua cultura ma in Cristo non riesce più a credere”. La presunzione di realizzare un cristianesimo senza Cristo. L’abbiamo detto tante volte: liberté, egalité, fraternité, ma non più fondata sul Padre Nostro, ma sulla ragione, sulla natura dell’uomo.

“Uno sconosciuto è mio amico” sempre una poesia di  Lagerkvist:

 

Uno sconosciuto è mio amico,
uno che io non conosco,
uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia.
Perché Egli non è presso di me.
Perché Egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza ?
Che colmi tutta la terra della tua assenza ?

Chi sei tu? Sento che ci devi essere ma non riesco più a riconoscerti.

La seconda conseguenza di cui parla Giussani, le cito soltanto, poi andrete voi a riprenderle sul libretto. La cosa più interessante è stata per me andare a rileggere la lettera di Beppino o tirare fuori le lettere di tanti alunni in questi anni e sentire che ragazzi di 14 o 15 anni dicono la stessa cosa quasi con le parole dei poeti e degli scrittori, dei geni. È impressionante. “L’uomo non può a lungo, dice Giussani, resistere in questa situazione enigmatica perché “Tutta la legge dell’umana esistenza sta in questo: che l’uomo possa inchinarsi all’infinitamente grande”” usando le parole di Dostoevskji. Per questo vi ho citato Leopardi, per questo lo fisso come discrimine della storia occidentale e europea perché è stato l’ultimo con questo grido: “sarebbe bello che Dio ci fosse compagno nella vita” ma allo stesso tempo grida “peccato che non è vero”. E qui comincia a introdursi la domanda vera su ciascuno di noi, su che tipo di fede viviamo. Che fede viviamo se gli uomini del nostro tempo gridano una nostalgia per Cristo e devono dire, di fronte al cristianesimo “Peccato che non è vero”. È una responsabilità enorme che abbiamo.

Una disperazione etica è la seconda conseguenza denunciata da Giussani, cioè non c’è legge, non ci sono più il bene e il male, non si sa più nulla del bene e del male. Kafka diceva: “Anch’io come chiunque altro ho in me fino alla nascita un centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare”. Questa è una citazione che amo tantissimo e che rincuora i genitori e gli insegnanti che possono stare tranquilli che nemmeno la peggiore educazione può togliere il grido con cui Dio ha fatto l’uomo. Il bisogno di felicità con cui Dio ci ha messo al mondo, quello non lo ammazza un insegnante, un genitore, pur mettendocela tutta. È il grillo parlante apparentemente ammazzato nel primo capitolo da Pinocchio che torna continuamente. Quello non lo puoi ammazzare. E continua: “Ma in me questo centro di gravità è come una palla di piombo che appesantisce anziché aiutare a vivere. Un’angoscia esistenziale”. Dopodiché le conseguenze di questa angoscia esistenziale che chiama “disperazione etica” sono molte e lui ne fa un elenco terrificante che leggerete voi.

Io queste cose cerco di rintracciarle nel testo di Pasolini: la perdita del gusto di vivere, sfiducia in sé, nella consistenza della persona, distruzione dell’utilità del tempo, una terribile solitudine, un’inconsistenza della realtà che non ha più una sua ragion d’essere e perciò il rifugiarsi in un impegno volontaristico “Ci metto almeno la mia buona volontà”, che non serve assolutamente a niente.

Pasolini è la quintessenza di tutto l’odio per la Chiesa, anche se in realtà poi non è così vero e lo vedremo in uno dei quattro brani che leggeremo, un discorso che ha fatto a Brescia nel dicembre 1964, stesso anno dell’uscita del film “Il Vangelo secondo Matteo”. Lui dice certe cose in sintonia totale con quel che stavo dicendo adesso. Vorrei far notare questo suo essere profeta in che senso? Scartata l’ipotesi che la Chiesa sia una cosa interessante per la vita degli uomini d’oggi, guarda il suo tempo e capisce che la cosiddetta rivoluzione, il cosiddetto mondo nuovo per cui un’intera generazione si sta battendo, questo fu il ’68 almeno nelle sue manifestazioni ufficiali, ha dentro un marcio che lui sente d’istinto e lo denuncia con un coraggio che gli costò molto. Forse uno dei brani più famosi in questo senso è quello che scrisse subito dopo i famosi “scontri di Valle Giulia” qui a Roma. I primi scontri violentissimi, il 16 giugno del ’68 tra polizia e manifestanti. Stava per crollare la diga e lui scrive questa cosa incredibile. Chi ha più o meno la mia età si ricorderà che cos’erano più o meno quegli anni, come temperie culturale, come clima che c’era. Se andavi contro erano legnate, erano botte. Veniva esercitato un ostracismo e con l’etichetta “fascista” venivi fatto fuori dal lavoro, dalle fabbriche, dalle amicizie. E lui invece con un coraggio da leoni scrive:

 

Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà 

del decennio passato. Siete in ritardo, cari. 
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà. 
Vi odio come odio i vostri papà. 
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri. 

Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano. 
Quanto a me, conosco assai bene 
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, 
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;

Questo è il popolo. Perché io ho patito tutto l’errore di quegli anni, io l’ho sentito come un nemico mortale Pasolini, ma se l’avessi incontrato credo che in qualcosa ci saremmo capiti perché io questa cosa ce l’avevo. Non so come dirlo, ma la madre incallita come un facchino che muore di fatica a 60 anni ce l’avevo davvero. Continua parlando dei poliziotti.

 

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti 

(per una quarantina di mille lire al mese): 
senza più sorriso, 
senza più amicizia col mondo, 
separati, 
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini 
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. 
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. 
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! 

 

[…]
una sola cosa gli studenti realmente conoscono: 
il moralismo del padre magistrato o professionista, 
il teppismo conformista del fratello maggiore 
(naturalmente avviato per la strada del padre), 
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini 
contadine anche se già lontane.

Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione 

al potere.

Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre 
sulla presa di potere. 
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, 
nei vostri pallori snobismi disperati, 
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, 
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà: 

conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) 
[]

Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, 
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo. 

Smettetela di pensare ai vostri diritti, 
smettetela di chiedere il potere.

Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere. 

Quanto di più evangelico si possa immaginare. Poi è una poesia molto più lunga, che ha dentro una cosa che per il tempo era assolutamente rivoluzionaria. Quella che sta accadendo non è la rivoluzione della gente nel senso profondo del termine, non è del popolo, non aiuterà a camminare verso la felicità. È solo un cambio di guardia. Un potere si sostituisce a un vecchio potere. Le categorie sono quelle del marxismo di allora: le lotte di classe, che oggi fanno un po’ sorridere ma alle quali della gente ha sacrificato la vita, quindi tanto di cappello. Perché il PCI fu una Chiesa a tutti gli effetti, con i suoi dogmi, le sue obbedienze, il suo papa. Alcuni avevano un grande amore proprio per il popolo. Negli anni quanti colleghi ho incontrato a scuola e quanta fatica si è fatta a volte a lavorare insieme tra cattolici, veramente una fatica grande perché il privilegio era sempre alla forma, ai modi, ai comportamenti, ai cosiddetti valori. Ma un amore vero a quei ragazzi così come sono l’ho trovato tante volte proprio in colleghi comunisti, che venivano dall’altra chiesa. Perché anche per loro fu una fede nel popolo quella che vivevano e la missione che vivevano come insegnanti. Poi dentro un guscio ideologico terrificante, culturalmente e politicamente ma per me l’incontro con alcuni di loro è stato l’incontro con quel sentimento del popolo, del bisogno della gente. E Pasolini cosa individua invece nel ’68? La rivoluzione di un nuovo potere più devastante di tutti i poteri precedenti.

 

È stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita “edonistico” che ha determinato il trionfo del «no» al referendum.[1974, dopo il referendum sul divorzio] Non c’è niente infatti di meno idealistico e religioso del mondo televisivo. È vero che in tutti quegli anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo per che il Vaticano non ha capito che cosa doveva e che cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio «Carosello»,

 

Voi vi ricordate cos’era il Carosello? Non c’era un tempo la pubblicità in mezzo ai film! Mi ricordo che quando mio fratello mi disse “sapete che in America interrompono un film per far vedere la pubblicità?” nessuno ci credeva! La pubblicità era Carosello, cinque pubblicità che erano dei veri e propri piccoli filmati e dopo a nanna, il demonio arrivava dopo Carosello, c’era la tv dei ragazzi, poi qualcosa in una zona grigia tra il vietato e il lecito, ma Carosello certamente sanciva l’orario e i programmi solo per adulti. E lui dice:

 

 

perché è in «Carosello», onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani «devono» vivere. E non mi i dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. D’altra parte le trasmissioni di carattere specificamente religioso della Televisione sono di un tale tedio, di un tale spirito di repressività, che il Vaticano avrebbe fatto bene a censurarle tutte. Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia come attraverso la televisione. Il tipo di uomo e di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva- giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà.

 

Certo che qui ogni cosa sarebbe da discutere: ci sono delle ragioni storiche, venivamo dalla guerra e da uno stato di povertà e, con passione, una generazione di genitori ha detto “quello che ho passato io, mio figlio no!” E quindi lavorare 40 ore al giorno per garantire quel livello di vita materiale. Sentita come progresso, come passo in avanti, per cui stiamo parlando di cose che hanno mille sfaccettature. Io quel che voglio individuare è che cosa è il cristianesimo in un mondo così. Dopo del resto si può discutere.

 

Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace.

Se al livello della volontà e della consapevolezza la televisione in tutti questi anni è stata al servizio della democrazia cristiana e del Vaticano, al livello involontario e inconsapevole essa è stata invece al servizio di un nuovo potere che non coincide più ideologicamente con la democrazia cristiana e non sa più che farsene del Vaticano.

 

Quel nuovo potere è quanto di più anticristiano ci sia. Fa un paragone poi tra le città dell’Unione Sovietica e le città occidentali e dice che in Unione Sovietica si vede da come la gente è vestita e va in giro, che ha raggiunto l’uguaglianza. E a me viene la domanda: Ma come ha fatto un genio così a non accorgersi della stupidaggine che sta dicendo? Come hanno fatto a credere a quell’uguaglianza lì ritenendola più vera  perché esito di una conquista sociale, di una lotta di classe, di una rivoluzione che verto ha visto degli eroi, a Stalingrado ma come fai a non vedere la verità paragonando l’uguaglianza raggiunta in Unione Sovietica come un’uguaglianza vera perché guadagnata col sangue e quella invece occidentale non vera perché concessa dal nuovo potere economico? Si capisce? C’è una svista clamorosa che ci fa chiedere a dove e cosa stava guardando! Pasolini scrive “L’uguaglianza infatti non è stata conquistata, ma è una ‘falsa’ uguaglianza ricevuta in regalo”.

Questo esempio poi forse è sintesi di tutto Pasolini:

 

Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale, è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo e profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente. Faccio un esempio, molto umile. Una volta il fornarino, o cascherino – come lo chiamano qui a Roma – era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo ragazzo era allegro. 

Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione? La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità «reale». Oggi, questa felicità con lo Sviluppo è andata perduta. Ciò significa che lo Sviluppo non è in nessun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista. Esso non dà che angoscia. Ora ci sono degli adulti della mia età così aberranti da pensare che sia meglio la serietà (quasi tragica) con cui oggi il cascherino porta il suo pacco avvolto nella plastica, con lunghi capelli e baffetti, piuttosto che l’allegria «sciocca» di una volta. Credono che preferire la serietà al riso sia un modo virile di affrontare la vita. In realtà sono dei vampiri felici di vedere divenuti vampiri anche le loro vittime innocenti. La serietà, la dignità sono orrendi doveri che si impone la piccola borghesia; e i piccoli borghesi sono dunque felici di vedere anche i ragazzi del popolo «seri e dignitosi». Non gli passa neanche per la testa il pensiero che questa è la vera degradazione: che i ragazzi del popolo sono tristi perché hanno preso coscienza della propria inferiorità sociale, visto che i loro valori e i loro modelli culturali sono stati distrutti. 

[11 luglio 1974, P.P.P., “Ampliamento del bozzetto sulla rivoluzione antropologica in Italia” in Scritti Corsari]

 

Cioè che cosa sta dicendo? Non fa il passo, non ci arriva a dire le cose per come sono, ma arriva sull’orlo, come Leopardi. Cosa sta dicendo Pasolini? Sta dicendo che è stata distrutta la tradizione, che è stata distrutta quella ragione profonda che faceva lieto mio padre nella sua povertà e nella sua apparente inferiorità sociale. Quella letizia che ha vissuto un intero popolo piena di drammi, di fatica, di dolore, ma permessa da una profonda a volte non detta o indicibile letizia che era data dal “tutto è bene, Cristo è risorto, la vita ha un senso. La pena e il dolore hanno un significato, nulla è perduto”. Questo era il sentimento, il giudizio della fede che ha fatto vivere un popolo per 1800 anni. Lui però la butta lì in chiave sociale, economica, classista. La sente questa cosa, la dice, ma non ne sa individuare il motivo vero. La butta in politica anche lui, proprio perché è di quegli anni. Ma che meraviglia sentirgli descrivere il fornarino contento e sentire la tragedia di una tristezza invece imperante e che diventa l’angoscia caratteristica di una generazione.

 

Quelli sono gli anni del Concilio, gli anni di rinnovamento che la Chiesa vive, negli anni in cui l’Europa bruciava non per una guerra vera e propria, ma per l’incendio di navi alle spalle, ponti, incendiando la tradizione. Il dibattito conciliare è stato come soffiare sul fuoco, in senso anche positivo. Il sentimento di una rivoluzione ha accompagnato anche la Chiesa. Che qualcosa bisognasse cambiare era chiaro a tutti, il problema è che questa ideologizzazione che nel ’68 è avvenuta, per via di quel razionalismo di cui abbiamo parlato già, che diventa in questi anni coscienza popolare, che invade le case, le famiglie attraversa, si sposa con il dibattito interno alla Chiesa sulla propria funzione e la propria natura. Un’attesa grande riforma della vita della Chiesa. Vi racconto come l’ho vissuta io. A Calcinate, dove ho aperto nell’82 una scuola cattolica, stavamo cercando uno stabile per quella che nelle nostre intenzioni doveva essere una scuola media. Troviamo questo stabile enorme, dei padri passionisti che, per farla breve, ci hanno accolto e hanno permesso l’avvio della scuola “La Traccia”. Era l’82, in questo luogo deserto, c’erano allora 17 ragazzini in seminario perché era il seminario minore delle medie nazionale dei padri passionisti. Era stato inaugurato nel ’62, vent’anni prima, con 350 posti letto che non bastavano, ora erano 17 ragazzini e qualche anziano padre. I seminari in quegli anni si sono letteralmente svuotati e siccome erano pieni dei migliori tra i nostri ragazzi, dal punto di vista almeno della formazione intellettuale e culturale. Il travaso di queste intelligenze, di anime nobili in cerca di ideali grandi, il travaso dalla Chiesa ai movimenti di formazione marxista è stato quasi automatico. La bontà dell’ideale perseguito dentro il seminario nella vocazione, sentito ad un certo punto quell’ideale cristiano come inadeguato, non storicamente fondato e sentita molto più adeguata il nuovo verbo marxista proprio come parola e annuncio di una salvezza per i poveri, per gli indigenti, per le classi sociali perseguitate dal capitale, nel giro di pochissimi anni un’intera generazione fece armi e bagagli e passò dall’altra parte. Ma non la sentì come un passaggio dall’altra parte. Nessuno allora avvertì che quella parte sarebbe stata una parte così violentemente nemica del cristianesimo, della tradizione e della Chiesa. È successo poco dopo, ma in quegli anni fu sentita come la traduzione vera della propria passione evangelica per i poveri e per gli oppressi. I gruppi parrocchiali, che subirono anche nel lessico, si potrebbe fare la storia di questo paese con la storia lessicale di certi fenomeni sociale, i gruppi di base, che cominciarono a chiamarsi così in opposizione all’autoritarismo dei vertici, in quattro e quattr’otto diventarono i gruppi di “marxismo e cristianesimo”. La Bibbia era il libro di Girardi “Marxismo e cristianesimo”. Poi a dar man forte arrivò il catechismo olandese, poi un certo modo di sentire nella Chiesa certe figure che, in opposizione al cosiddetto autoritarismo della gerarchia, dogmatismo dei contenuti, formalismo dei riti, avviò quel casino che conosciamo. Noi abbiamo assistito a cose che raccontate oggi fanno ridere ma io ho assistito a messe dei preti operai! Io ero il rappresentate di CL al convegno “Evangelizzazione e promozione umana” della Diocesi di Bergamo e mi sorbii una giornata intera di persone, anche di una certa età, che urlavano “buttiamo giù le chiese per fare le case per i poveri perché questo è il vero vangelo, i comizi saranno le nostre prediche, i cortei le nuove processione etc…” Ma davanti al Vescovo al convegno diocesano! Arrivarono poi i preti guerriglieri osannati che dicono messa con la cartuccera a tracolla e la maschera in volto mentre dicono messa in mezzo alla giungla coi poveri dell’Amazzonia. Insomma, è montato tutto un equivoco che inizialmente non fu un equivoco, era una passione vera rispetto alla quale la Chiesa si è trovata totalmente impotente, non preparata. Arroccata a difesa di alcune forme che parevano difendere la fede stessa, e le forme invece non la difendono mai. E nello stesso tempo saliva un’esigenza di cambiamento perché questa contraddizione era ormai una ferita aperta. Perciò il Concilio diventò un dibattito da bar, invece che di calcio, si parlava del Concilio. Da questo punto di vista la nostra è stata una generazione meravigliosa, era normale a 17 anni fare discussioni fino alle 3 di notte sul Concilio, sulla Chiesa, sui poveri, per che cosa si dava la vita. In questo fummo una bella generazione, poi vi dico cosa ne pensava Pasolini e cambiate idea.

 

Pasolini, in una presentazione del suo “Il Vangelo secondo Matteo” parla del papa Giovanni XXIII, il papa buono, al quale evidentemente io sono particolarmente debitore essendo il papa santo bergamasco. Io ricordo che quando è morto, nel 1963, la mia mamma, poveri come eravamo, comprò il giradischi per poter sentire la canzone del papa buono anche in casa. L’altro ricordo che ho è di quando è morto. Alle tre di notte bussano alla porta violentemente, era un amico di mio padre che disse “è morto il papa, si va a Roma. Appuntamento con le bici, in piazza, alle 5”. Alle cinque del mattino gli uomini di mezzo paese, in bicicletta, partivano per i funerali di papa Giovanni, per venire a Roma. Queste sono cose che dicono tutto di una storia, di un paese, di una cultura. Quando io leggo queste cose, Pasolini aveva questo sentimento che io vi sto comunicando adesso, perché sentire alle tre buttar giù la porta e vedere uomini d’acciaio che uscivano dalla guerra, in lacrime che si chiamavano l’un l’altro per la morte del papa era una cosa incredibile. Ma vi rendete conto? Quella civiltà è stata spazzata via nel giro di dieci anni. E i padri non sono più riusciti a parlare con i figli, tantomeno con le figlie. Un disastro. Quella cultura del nostro disegnino che sale sempre di più, sempre più nemica della Chiesa, in questi anni, e questa è la tesi che vede sposato il pensiero di Pasolini e quello di don Giussani, attraverso in particolare la televisione e la scuola di stato, quella cultura entra nella vita della gente, creando questo casino, questo disastro. Separa, distrugge, anche nell’immaginario, duemila anni di civiltà cristiana, distruggendone i principi fondamentali: l’autorità, la religiosità, e la caratteristica fondamentale, quella di Leopardi, una dipendenza dal mistero. L’uomo umilmente adoratore di una grandezza che non dipende da lui, che viene prima di lui, questa è l’operazione che è stata perpetrata in quegli anni da gente in massima parte inconsapevole di quello che stava accadendo, gente brava, che voleva aiutare. Gente che magari è partita per il terzo mondo, con i gruppi del Mato Grosso, la Gioventù risveglio, il Gen Rosso, movimenti anche internazionali che questo afflato di verità e di solidarietà con i poveri l’hanno vissuto pagandone il prezzo con la vita!

Questo, che era vero, che fu una passione vera, in un baleno, buttata in politica è diventata un’ideologia terrificante. Pasolini l’aveva già visto. Il profeta è quello che vede da pochissimi indizi presenti il futuro, queste sono queste pagine.

 

In un certo senso Giovanni XXIII compiva l’atto profondamente altamente democratico di sorridere di se stesso.

Cosa volete immaginare di più rivoluzionario nella Chiesa, nella Chiesa che si è sempre posta come autoritaria, come paternalistica, come dogmatica, antiliberale e antidemocratica nel fondo? Papa Giovanni ha compiuto nel proprio ciclo, nel breve ciclo del suo papato, una profonda rivoluzione nella Chiesa, ed è questa profonda rivoluzione che è un fatto secondo me definitivo e importante. Non è il fatto che egli fosse un buon Papa e simpatico a tutti noi, a tutti i livelli. Non è questo l’importante. È che per la prima volta Papa Giovanni XXIII ha vissuto all’interno della Chiesa, nel profondo del suo spirito cristiano la grande esperienza laica e democratica della borghesia. Ha vissuto cioè la reale realtà del suo tempo, e nella reale realtà del suo tempo, oltre a questa esperienza, fondamentale, laica e democratica della borghesia, ci sono delle nuove realtà, c’è la realtà del socialismo.

Voi sapete che il socialismo è nato con il Vangelo in mano. Alla fine dell Ottocento i primi Socialisti hanno cominciato a predicare il loro socialismo tenendo in mano il Vangelo, riferendosi al Vangelo. 

 

De Lubac, grande teologo, ha scritto che la tragedia dell’umanità è stato il mancato incontro tra socialismo e cristianesimo, e qui lo si vede.

 

E ci sono anche comunisti in questa nuova realtà. Ebbene tutti voi avete visto come Papa Giovanni non riuscisse, – proprio non riuscisse psicologicamente a fare delle discriminazioni – non perché lo facesse per volontà o per intenzione o per diplomazia; assolutamente no. (Il compromesso richiesto dalla diplomazia è un fatto profondamente anticristiano e anti-evangelico. Quando mai Cristo ha predicato e ha detto: «siate diplomatici», oppure «venite a compromessi?» È proprio il contrario di quello che ha predicato Cristo.) Quindi Giovanni XXIII, che era profondamente cristiano, non veniva a compromessi. C’era molta bonomia e molta dolcezza in lui, e quindi perdonava qui e là, ogni volta che poteva; ma non ha mai ceduto ad un momento di compromesso. Era autentico il moto democratico di avvicinamento a tutti quelli che sono i classici nemici della Chiesa. 

 

Questa è la cosa che ferisce e che colpisce: lui chiama democrazia quello che è cristianesimo.

 

Voi avrete dunque osservato come Papa Giovanni XXIII era incapace psicologicamente di fare delle discriminazioni. Questo perché in lui si erano profondamente fusi e incrociati lo spirito cristiano con lo spirito della democrazia. Uno che sia veramente cristiano e sia veramente democratico non è capace di fare delle discriminazioni. Quindi, quando si rivolgeva a dei comunisti si rivolgeva veramente a delle persone come lui; non riusciva a concepirli manicheisticamente come degli esseri diversi con cui non fosse possibile avere dei rapporti.

[P.P.P. “Saggi sulla politica e sulla società”, Meridiani Mondadori]

 

Perché questo brano per me è importantissimo? Perché quello che Pasolini dice senza capirlo, senza riuscire a tratteggiarlo nella sua fisionomia vera è che cosa ha caratterizzato Papa Giovanni o comunque un certo spirito conciliare di allora? La grande scoperta che il problema del cristianesimo non era più delle forme cristiane da difendere ma era il problema del cristianesimo vissuto e capace di interpellare il cuore dell’altro. Per lontano che sia ideologicamente, l’altro ha il tuo stesso cuore, l’ha fatto Dio, ti è fratello. E per questa fratellanza vera che Cristo ha portato sulla terra tu dai la vita per l’altro. Comunista, fascista, nero, bianco, rosso non è più un problema di schieramenti, non è più un problema di orti da difendere, non è più un problema di castelli assaliti dal nemico a cui fare la guerra. Oggi è tempo di una Chiesa, come dice il papa, incidentata piuttosto che chiusa in se stessa. Una Chiesa che va fuori perché ha tanto da dare a quelli che ci sono fuori, che magari le vogliono male, non importa: era così all’inizio, è stato così per Gesù.

Ecco, quel che mi pare di poter dire in conclusione è questo, che Pasolini, se lo assumiamo come sintesi di questo desiderio dell’uomo gridato a mo’ della poesia di Leopardi, se osserviamo la storia del ’68 da questo punto di vista, come non rintracciare questo grido, questo bisogno di Cristo? Non più riconoscibile per mille ragioni. Quando penso a Oriana Fallaci che, mentre con rabbia attacca l’ISIS, l’integralismo musulmano perché distrugge la bellezza che caratterizza il nostro paese, come fa a non vedere che quella bellezza è il cristianesimo? Perché contemporaneamente parla malissimo della storia della Chiesa, ma da ignorante proprio! Eppure riesce a scrivere un libro che osanna la grandezza dell’Italia, della sua tradizione ma nel contempo ne mina le fondamenta, minando proprio e accusando di delitti mai commessi proprio la vita della Chiesa, esattamente come tanti altri nel mondo dell’arte, della canzone, del cinema, nemici della Chiesa per ragioni ideologiche e per convenienza politica. Poi quel movimento che ha scassato la società europea e la Chiesa nei termini che ho detto, che ha visto in quei vent’anni svuotarsi i seminari, dà vita a episodi per cui a casa mia fu fondato il Partito Democratico di Unità proletaria da sette baldi giovani, tutti e sette ex seminaristi. A casa mia dove aveva sede anche la nascente comunità di CL e dove venivano preti e frati in grande abbondanza. Fatto sta che una sera ci siamo trovati con tre cene contemporaneamente. Mio padre fece cinquanta trote al forno e ricordo bene che io pranzavo in cucina insieme al rettore del seminario dove c’era l’altro mio fratello con preti di una certa levatura, in sala pranzava il raduno dei responsabili di CL di Bergamo e in fondo il direttivo di Unità Proletaria e mi ricordo che mia mamma tira fuori la prima infornata di trote al forno e parte con il vassoio dicendo, di fronte alla mia richiesta di servire prima il rettore, “prima quelli là, che ne hanno più bisogno”. E noi abbiamo aspettato il nostro turno, perché è questo il cristianesimo che ho imparato io dai miei. Non gli faceva la guerra, li sentiva lontani e bisognosi di Cristo, perché nella sincerità con cui avevano vissuto il loro ingresso in seminario era la stessa sincerità con cui ne erano usciti. Un certo potere li ha traditi e massacrati, e ha buttato tutto in politica, facendo di don Lorenzo Milani e dell’Isolotto e di quel che di meglio anche esprimeva la Chiesa, ne hanno fatto un’arma politica contro la Chiesa. Ma è anche una responsabilità della Chiesa stessa non essere stata presente all’appuntamento con questo grido di verità che ci veniva dai geni, dai profeti, dai grandi santi presenti sempre, e la Chiesa non ha capito, ha mancato all’appuntamento. Detta così capisco che è grossa ma è stata un’incomprensione vera, e cos’è successo? Che quelli lì che potevano essere i grandi alleati contro il nuovo potere del consumismo, del materialismo selvaggio che ha distrutto tutto, li abbiamo lasciati in pasto alla politica che ne ha fatto l’arma contro la Chiesa! E così io li ho odiati per scoprire adesso che erano grandi cuori, grandi menti, tradite da una incapacità della Chiesa di riconoscere questo grido perché troppo presa a difendere le forme e presi poi dal Nemico con la N maiuscola e usati proprio loro che gridavano il bisogno di verità, li ha usati il nemico e ne ha fatti un’arma contro la Chiesa.

è terribile ma la storia di tanti di questa generazione è stata proprio questa. Non dico l’abusato esempio di Renato Curcio capo delle Brigate Rosse presidente dell’Azione Cattolica del Veneto, ma è stato veramente così. La Chiesa ha generato dal suo interno i suoi peggiori nemici per questa parabola terribile che ha vissuto. A noi tocca metter rimedio a questo, a noi tocca il coraggio di smetterla di dividere il mondo in due, quelli pro e quelli contro, quelli dentro e quelli fuori. Ma cosa ne sappiamo ormai di chi è dentro e di chi è fuori? Quel mondo lì non c’è più. Quel che dice Papa Francesco, bisogna andar fuori da qui forti di un’amicizia che ci ha fatto vedere Cristo e incontrare gli uomini così come sono: marxisti, atei, comunisti, neri, gialli. Portare Cristo a un uomo devastato, a una generazione di giovani che vive tutti questi mali che Giussani elenca e tutti quelli della lettera della volta scorsa.

 

Ultima poesia, forse la più bella con cui chiudiamo. Si chiama “La poesia della Tradizione”.

 

Oh generazione sfortunata!
Cosa succederà domani, se tale classe dirigente –
quando furono alle prime armi
non conobbero la poesia della tradizione
ne fecero un’esperienza infelice perché senza
sorriso realistico gli fu inaccessibile
e anche per quel poco che la conobbero,
dovevano dimostrare
di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.
Oh generazione sfortunata!
che nell’inverno del ’70 usasti cappotti e scialli fantasiosi
e fosti viziata
chi ti insegnò a non sentirti inferiore –
rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili –
chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!
I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi
come oggetti di un vecchio nemico
sentisti l’obbligo di non cedere
davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate
fosti in fondo votata ai buoni sentimenti
da cui ti difendevi come dalla bellezza
con l’odio razziale contro la passione;
venisti al mondo, che è grande eppure così semplice,
e vi trovasti chi rideva della tradizione,
e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda,
erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato
la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata,
arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia
senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere
e che non si gode senza ansia e umiltà
e così capirai di aver servito il mondo

contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:
era esso che voleva gettar discredito sopra la storia – la sua;
era esso che voleva far piazza pulita del passato – il suo;
oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita:
perfetti abitanti di quel mondo rinnovato
attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,
ma soprattutto attraverso voi, che vi siete ribellati
proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto;
non vi si riempirono gli occhi di lacrime
contro un Battistero con caporioni e garzoni
intenti di stagione in stagione
né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento,

né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione)
non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati
né le sedi dei padri padroni, dipinte da
-e tutte le altre sublimi cose
non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti)
il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel
la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere:
irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti
e di aggressività disperata
passaste una giovinezza
e, se eravate intellettuali,
non voleste dunque esserlo fino in fondo,
mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere,
e perché compiste questo tradimento?
per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio
di non essere operaio fino in fondo
gli operai non piansero davanti ai capolavori
ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto
e quindi all’infelicità
oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto:
povera generazione calvinista come alle origini della borghesia
fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva
tu hai cercato salvezza nell’organizzazione
(che non può altro produrre che altra organizzazione)
e hai passato i giorni della gioventù
parlando il linguaggio della democrazia burocratica
non uscendo mai della ripetizione delle formule,
ché organizzar significar per verba non si poria,
ma per formule sì,
ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere
imparlabile che ti ha voluta contro il potere,
generazione sfortunata!
Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire –
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!

 

Questa poesia è la poesia della mia generazione, siamo descritti totalmente. Quel potere lì, quel nuovo potere che ha usato il ’68 per riciclarsi, è quel potere ideologico, terribile, che ha conquistato in quegli anni tutto. Per cui la cosa di cui dobbiamo renderci conto è che patiamo una censura culturale per tutto ciò che è vero umanamente e cristianamente significativo, terrificante, prima di tutto a scuola. E qui si aprirebbe tutto il discorso, perché la rivoluzione fu fatta conquistando magistratura, scuola, università e giornali. Il potere do comunicazione, il potere di trasmissione alle nuove generazioni e il potere di giudicare il bene e il male. Le conseguenze le abbiamo viste. Io la prossima volta proverò, concludendo in positivo, a vedere alcuni autori dove invece, pur dentro questo casino terrificante, la certezza cristiana e quell’amore vero al popolo e quel bisogno vero di Cristo si documenta anche nella letteratura, che appunto è stata censurata ma c’è.

Ci leggeremo qualcosa per poter dire che sì, in modo carsico magari, ma quel cristianesimo c’è ancora, lo andiamo a ripigliare rendendoci consapevoli e coscienti.

Alla prossima.

 

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